Ogni secondo che passa un pezzo di Internet finisce nel dimenticatoio.
Questo è il pensiero di Michael Nelson, professore e ricercatore presso la Old Dominion University in Virginia. Con i suoi studenti ha condotto numerosi studi su quali e quante informazioni digitali scompaiono dal web ogni giorno.
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Nel 2012 ha pubblicato Losing My Revolution: How Many Resources Shared on Social Media Have Been Lost, dove ha tracciato eventi importanti tra cui gran parte dei post e tweets presenti sui social network: dalle epidemie alla morte di personaggi famosi, passando per rivoluzioni o rivolte.
Il gruppo di ricerca è arrivato alla conclusione che dal primo anno di pubblicazione, quasi l’11% delle risorse condivise viene perso e continuerà a farlo con un tasso dello 0,02% al giorno. Sempre Michael Nelson riconosce che le informazioni sul web rappresentano un paradosso. Da un lato tante stanno effettivamente scomparendo nella loro forma originale, dall’altra non tutto è perduto: le informazioni presenti ad un determinato indirizzo o URL scompaiono quasi immediatamente, ma in realtà molte di esse vengono copiate in luoghi diversi e quindi continuano ad esistere.
Prendiamo l’esempio di un video su Youtube pubblicato senza copyright: se si prova ad accedere tramite il suo URL originario, ci sono buone probabilità che non sia più disponibile (o che il link sia “rotto”) ma che il video esista ancora su YouTube caricato da un altro utente.
In italiano si parla di fenomeno dei collegamenti interrotti appunto, mentre in inglese, broken link o link rot (collegamenti marci). Numerosi studi sono stati effettuati e tutti concordano con le statistiche di Nelson: su 100 link presenti, 10 non funzionano più dopo un anno. Lo studio più recente sul fenomeno dei link rot è stato condotto da Jonathan Zittrain, professore ad Harvard e massima autorità nel campo. Con il team digital del New York Times, ha osservato i collegamenti ipertestuali esterni al sito del noto quotidiano e degli articoli pubblicati dal 1996 — vale a dire circa 550.000 articoli e 2,2 milioni di link — un quarto di quei collegamenti erano ormai scaduti o non più disponibili. Un tripudio di Errori 404.
“Ci sono molte ragioni per cui alcuni link scompaiono” — spiega Michael Nelson — gli utenti possono eliminare da soli i contenuti, come i tweet, oppure possono chiudere completamente un account sui social. E poi ci sono le infrastrutture legate alla piattaforma stessa. Ad esempio, all’inizio Twitter non consentiva l’hosting di immagini o l’accorciamento dei collegamenti. E molti contenuti multimediali sono andati persi.
Alcuni contenuti scompaiono di proposito, come ad esempio le inserzioni su eBay o Subito.it, per motivi legali, come i video che infrangono un copyright su YouTube. Oppure c’è il caso dei link che rimandano a un sito funzionante, ma che questo non ha più nulla a che fare con il contenuto originale. E questo tipo di broken link sono più difficili da individuare e quindi quantificare.
Diverse aree importanti del nostro patrimonio digitale sono interessate da questo preoccupante fenomeno. Il giornalismo più di tutti, ma anche la giurisprudenza, per esempio. Nelle pubblicazioni giuridiche, circa il 70% dei link pubblicati tra il 1999 e il 2011 non funziona più. Per provare ad arginare questo fenomeno, l’Università di Harvard ha creato Perma.cc, un protocollo per la creazione di collegamenti perpetui e che non si “rompono”
Fortunatamente, ancora qualcosa resta immagazzinato su un vero e proprio archivio digitale: Internet Archives lo fa egregiamente da più di 25 anni con la sua Wayback Machine, una macchina del tempo e custode della memoria di Internet. Ma questa risorsa è anche fondamentalmente centralizzata, e quindi suscettibile di attacchi hacker o deterioramento dei server. Grazie alla blockchain il materiale raccolto potrà vivere su una piattaforma di archiviazione decentralizzata come Arweave, in modo permanente (teoricamente per l’eternità).
D’altronde grazie ai libri di storia possiamo ricordare praticamente tutto, ma di quello che è successo sul web negli ultimi 25 anni cosa riusciremo ricordare? Cos’era una pagina MySpace? I fansite su Geocities? I blog su Stumbled Upon? Riusciremo ancora a recuperare un sito creato sull’italianissimo Altervista o il profilo di Chiara Ferragni su Netlog? E la prima homepage di ThaFacebook (prima che cambiasse nome)?
Ricordare il nostro passato web è una grande responsabilità che probabilmente comprenderemo appieno solo fra diversi anni. La quantità di materiale che gli esseri umani creano nei formati digitali è vastissima ed è sorprendente che si presti così poca attenzione alla sua conservazione.
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