Il concetto è abbastanza semplice: la prosperità e il benessere di una nazione (o di una qualsiasi comunità) si basano generalmente sull’avere un buon insieme di regole che consentano ai suoi abitanti di vivere e prosperare. Poiché le nazioni sono generalmente troppo grandi e burocratizzate per adottare innovazioni in modo rapido e massivo, livelli organizzativi più piccoli (cioè le città) sono meglio attrezzati per adeguarsi, analizzare e gestire i risultati dietro nuovi progetti economici o tecnologici.
Da qui l’idea delle città charter: cerca un appezzamento di terra, non ancora abitato, in un’area poco progredita e crea un ambiente che consenta ai nuovi abitanti, che accettano di vivere secondo le nuove regole definite dall’atto costitutivo (charter appunto), di trasferirsi lì, lavorare e vivere serenamente. Operazione Win-Win per entrambi, quindi. Esempi come Singapore o Hong Kong o le meno note Yogyakarta, Sinuiju o Tanjung Lesung hanno dimostrato, negli anni, come le città stato possano funzionare, e bene. L’Istituto che promuove questo nuovo tipo di urbanizzazione sottolinea il successo di alcuni esempi del XX secolo: nel 1980, quando fu istituita come Zona Economica Speciale, Shenzhen era una città di confine di appena 30.000 abitanti con un reddito medio annuo pro capite di 137 dollari. Ora è una megalopoli di 12 milioni di abitanti e con un reddito medio che supera i 13.000 dollari. Dubai è un altro esempio virtuoso. Ed il Charter Cities Institute afferma che possiamo replicare questo framework centinaia di volte, in tutto il mondo in via di sviluppo.
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Charter city o città stato, definiscono un nuovo regime di governance semi-autonoma costituito da regolamenti flessibili, tassazioni agevolate, e politiche di tutela dell’ambiente, e che nascono, oltre che per profitto, anche per combattere sovraffollamento, inquinamento e per ovviare ai cronici problemi delle città come le conosciamo oggi.
Eliminiamo le vecchie regole e creiamo una nouvelle vague di città che possano prosperare per investimenti, competenze e sviluppo economico.
Così, nel suo TED Talk del 2009, l’intellettuale principe delle città charter e premio Nobel Paul Romer parlò di questo argomento in modo più dettagliato, e da allora è stato coinvolto nella presentazione delle sue idee ai leader di tutto il mondo, in particolare in Madagascar e Honduras dove, è proprio il caso di dirlo, ha trovato terreno fertile per i suoi progetti: nel paese sudamericano infatti hanno accolto la sua nuova idea di città: Prospera (10 anni dopo il suo primo tentativo fallimentare). Situata al largo della piccola isola tropicale di Roatán, la città dovrebbe teoricamente operare secondo la propria costituzione e quadro giuridico, che contempli basse aliquote fiscali e che sia progettato per attrarre imprenditori ed investitori esteri.
Un render delle future abitazioni di Prospera, disegnate da Zaha Hadid
L’inizio è ancora tutto da definire ma c’è già chi dice che potrebbe diventare l’Hong Kong dei Caraibi. Questo è il primo vero test — nel mondo reale — della visione di Romer per le città economicamente liberalizzate e incentrate sul commercio come motori della crescita nel mondo in via di sviluppo: il destino di Próspera contribuirà a plasmare il futuro delle altre città charter in tutto il mondo.
Nonostante la proposta sia stata accolta positivamente, non poche sono state le accuse mosse verso Romer e le sue idee: città per capitalisti e neo-colonialisti, che costringerebbe le persone più povere ad essere governate da miliardari stranieri e da multinazionali (ma non è quello che già si verifica in alcune zone del pianeta?).
Romer sostiene che i paesi ricchi e gli investitori dovrebbero considerare le città charter come un’opportunità di investimento relativamente priva di rischi. Sottolinea il forte ritorno economico a fronte di un progressivo calo delle opportunità nei paesi più industrializzati. Ma se la tendenza è quella di dipingere le città charter troppo belle per essere vere, è perché è così realmente. C’è un enorme rischio politico che va vagliato: la corruzione in Honduras o i disordini politici in Madagascar sono più di due semplici variabili da tenere d’occhio per prendere in considerazione eventuali investimenti in città di questo tipo.
I difetti strutturali però non sembrano fermare i progetti di capitalisti “illuminati”: il rapper senegalese-americano Akon prima si dice pronto ad iniziare la costruzione di una “Wakanda reale” da 6 miliardi di dollari su un terreno donato dal governo senegalese, la Akon City, e successivamente annuncia di fare lo stesso anche in Uganda dove sorgerà la sua seconda smart city, sebbene il paese africano versi in condizioni di estrema povertà e abbia, probabilmente, esigenze ben diverse.
Il sistema economico si baserà su una criptovaluta, la Akoin, e sarà, secondo i piani del suo ideatore, una città decentralizzata, intelligente e sostenibile con resort, stadio, un quartiere degli affari e che fungerà da modello per tutto il continente.
Un render futuristico di Akon City
Sempre in Africa viene annunciata Talent City, una free trade zone situata in Nigeria, che pone al centro di tutto l’innovazione e la ricerca. Altro esempio di charter city che potrebbe diventare presto realtà è The Line, che sorgerà in Arabia Saudita su volere del Principe Mohamed Bin Salman: una lunga linea di circa 170 chilometri e che si estenderà da una costa del Mar Rosso fino all’interno e che non avrà strade, automobili, ma solo aree pedonali e spazi verdi. E sotto tutto ciò, una rete logistica e di trasporto ad alta velocità. Tutta l’energia sarà rinnovabile al 100% e ogni abitazione sarà autosufficiente.
Nel frattempo, l’idea delle città charter piace anche ad altre latitudini. A Marzo Elon Musk ha annunciato nuovi progetti per l’area che attualmente ospita una piccola struttura di SpaceX. Il fondatore di Tesla vuole infatti trasformare il piccolo paese texano, Boca Chica, in una vera e propria città con tanto di cambio nome: Starbase. Ma le autorità locali si sono affrettate a chiarire che non esiste ancora alcun accordo formale.
Un po’ più a Ovest invece, in Nevada, fa discutere la proposta del governatore Steve Sisolak: le società tech che investono almeno un miliardo, potranno governare le città che costruiscono, amministrando giustizia e riscuotendo le tasse. È il contenuto di una proposta di legge riportata dal Las Vegas Review Journal. Le aziende che fondano le proprie città non sono certo una novità: già nell’800, durante la seconda rivoluzione industriale, si svilupparono in Europa e più tardi anche in Italia: Dalmine, Rosignano, Crespi d’Adda per citarne solo alcune. Ma pensare di creare una città, da zero, e quasi del tutto autonoma, è ben diverso.
Intanto il lavoro da remoto e la tecnologia spingeranno le nazioni a cercare di convincere i migliori ad insediarsi nelle loro città e non saranno più i lavoratori a scegliere il posto migliore dove lavorare. Anzi, i lavoratori stessi saranno i padri fondatori di nuovi centri urbani, come nel caso ideologizzato da Creator Towns.
Le città invece competeranno per ottenere i lavoratori high value, come tenta di fare da mesi il sindaco di Miami Francis Suarez con campagne di PR e social media ad hoc, provando a persuadere la Silicon Valley a trasferirsi in massa sulle coste della Florida.
In uno scenario futuro, nel quale molti paesi inizieranno a modificare le loro leggi in risposta alla pandemia, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione, e i lavoratori diventeranno più flessibili nella scelta di dove vivere e lavorare, un nuovo tipo di centri urbani potrebbe iniziare a diffondersi su scala globale. D’altronde abbiamo visto emergere alcune tendenze interessanti con più paesi che decidono di istituire zone di libero scambio economico o visti speciali per attrarre remote workers come Dubai, Portogallo, Estonia o Barbados.
Sono curioso di vedere se e come si svilupperà questa tendenza nelle zone più povere, e poi nel resto del mondo. Credo, al momento, non sia una situazione attuabile in Europa e ancor meno in Italia.
Ma un domani non possiamo escludere che, grazie all’innovazione, alla tecnologia e alla flessibilità del lavoro, le città possano nascere e svilupparsi al pari di una startup.
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