È innegabile: l’intelligenza artificiale sconvolgerà il modo con il quale facciamo le ricerche online. E quanto annunciato da Google avrà la portata di una vera e propria bomba atomica per tutto il comparto del digital advertising.
Nel 2011, la rinomata società Andreessen Horowitz lanciò questa previsione: il software divorerà il mondo. Ora, nel 2023, sarebbe il caso di rivederla.
Prima di tutto, è bene ricordare che Google non ha certo atteso il 2023 per integrare algoritmi di intelligenza artificiale nel suo motore di ricerca. Da tempo ha tratto vantaggio dai dati degli internauti per affinare i risultati. Ciò che cambia ora è che l’utente non dovrà più scorrere un elenco interminabile di link nella speranza di trovare le risposte che cerca. Questo sarà, da qui in poi, compito esclusivo dell’IA.
Il software che riuscirà a dispensare le risposte più attendibili e veritiere diventerà il top of mind. E non è scontato che a farlo sia proprio Google. Certo, il colosso di Mountain View continua ad avere dei dataset non da poco. Ma sarà abbastanza?
Quando ci si ferma un attimo a riflettere su come funzionano i motori di ricerca, si percepisce appieno la loro portata. Come farebbe un sito a farsi conoscere, se Google non esistesse? Oltre a fare affidamento su carta stampata, influencer o OOH, stento a immaginare come un sito possa essere scovato se non può sfruttare una base di utenti come quella che bazzica i motori di ricerca. Tuttavia, che Google Search rinnovi o meno la sua interfaccia, per noi piccoli pesci cambierebbe poco o nulla. Ma per le balene dell’industria, la musica potrebbe cambiare. E di tanto.
Infatti, dalle primissime indicazioni pervenute sulla futura evoluzione della Search, denominata Search Generative Experience (SGE), si evince come il sistema si appoggi al web aperto che PaLM 2 (il GPT di Google, per intenderci) analizza quotidianamente.
Esso fornisce risposte basandosi su ciò che trova in un determinato momento. Tutto ciò avviene direttamente nella classica pagina dei risultati che tanto bene conosciamo, ancor prima di mostrare i link pertinenti. Anni di analisi comportamentali ci hanno insegnato che i primi tre risultati sono statisticamente i più cliccati (più del 50%). Posizionandoli in testa, nella stragrande maggioranza dei casi gli utenti saranno soddisfatti da tali risultati e non avvertiranno il bisogno di visitarne altri per trovare le informazioni (pare che il vero dark web si celi dietro la seconda pagina di Google, lol).
In questo senso, PaLM non si preoccupa di scovare la risposta esatta, ma restituisce un insieme di informazioni altamente probabili dopo aver esaminato migliaia di link sul web. Se in dieci siti diversi rileva che una biblioteca apre alle 9 del mattino, darà questa risposta perché è quella che ha riscontrato con maggiore frequenza ma non sottopone a verifica la veridicità dell’informazione stessa o l’autorevolezza delle fonti.
In un certo senso, un approccio predittivo simile ai suggerimenti di ricerca.
Siamo arrivati al nocciolo della questione: se, come immagino, gli utenti – più pigri che mai – si accontenteranno delle risposte fornite direttamente da Google senza visitare quelle fonti che hanno fornito quell’informazione, allora perché preoccuparci dell’estetica, dell’accessibilità, velocità o della struttura delle categorie di un sito web? Se sarà pur sempre fondamentale mantenere una vetrina per i grandissimi brand, cosa accadrà invece a tutte quelle imprese che stanno nel mezzo, ai blog o ai brand indipendenti che lottano per un pizzico di notorietà online e che dispongono di risorse limitate (oggi più che mai)?
Abbiamo strumenti che ci consentono di monitorare quanti visitatori atterrano su una landing page quotidianamente, quali pagine esplorano, da quali canali provengono così da conoscere meglio il nostro pubblico e dedicare particolare cura ai contenuti che funzionano di più per loro. Davanti ad una potenziale decrescita del traffico, tali informazioni diminuiscono sensibilmente, e capite bene che questo può diventare un grosso problema.
In ogni caso, possiamo ancora parlare di ricerca? Nelle loro prime iterazioni, Google e Bing parlano di conversazione. Questo mutamento lessicale testimonia una trasformazione epocale: non si tratta più di una ricerca tradizionale in cui l’utente scova le informazioni di cui ha bisogno, ma di un’interazione con un sistema che rimane ricettivo ai dettagli forniti quando e come necessario.
A questo punto non sarebbe folle pensare che i motori di ricerca, per come li conosciamo ora, un domani si estingueranno. Una volta che gli utenti si saranno abituati a un nuovo modo di reperire le risposte, se le aspetteranno ovunque. Questa ipotesi si basa sulla teoria del buono abbastanza. Potremmo leggere tutti gli articoli di un quotidiano da capo a coda, diventare esperti di cambiamento climatico, politica, calcio e cucina, ma la realtà è che la stragrande maggioranza dell’utente medio, si limiterebbe a leggere quasi sempre le informazioni fornite nelle prime tre righe del SGE. Non è più necessario conoscere ogni singolo dettaglio o leggere lunghe pagine di Wikipedia alla ricerca di informazioni utili, ci si limiterà all’essenziale, con Bard, ChatGPT, Bing e chissà cos’altro che saranno più che sufficienti.
E poi c’è TikTok. Ne avevo parlato tempo fa su questi schermi.
Il passaggio delle ricerche verso i social network è più di un semplice grattacapo per Google, che nonostante i suoi sforzi non è mai riuscita a imporsi in questo ambito. TikTok ha colto l’enorme opportunità e continua a promuovere aggressivamente il suo motore di ricerca. Pure questo potrebbe essere determinante nel cambiare le nostre abitudini di ricerca.
Inevitabilmente, l’interfaccia di una conversazione cambia la nostra relazione con i risultati di ricerca, forse più dei risultati stessi. Sappiamo che il design può influenzare significativamente il comportamento online, e non c’è motivo di dubitare che sarà così anche con le conversational interfaces che stiamo iniziando a vedere ultimamente. Anche se i link verranno forniti come fonti, nulla ci assicura che faremo effettivamente clic su di essi.
Se guardo ancora più lontano, prevedo un sistema in cui verranno integrate funzionalità di ricerca, potenziate dall’IA, su app di terze parti o anche su device hardware (potremmo avere ChatGPT integrato nel nostro frigorifero a fornirci una ricetta gustosa, spiegarci come cucinarla con gli ingredienti al suo interno ed eventualmente ordinare quelli che mancano).
Tuttavia, la principale sfida in questi casi sarà la fiducia che saremo disposti a riporre nel sistema. Fino a che punto ci fideremo delle loro risposte? Quando saremo pronti ad abbandonare completamente i tradizionali risultati a favore di risposte fornite esclusivamente da queste interfacce?
La questione della fiducia, dunque, sarà fondamentale per determinare il successo o il fallimento dei nuovi motori di ricerca del futuro.