Ormai ci siamo abituati: ciclicamente assistiamo allo scoppio di una polemica sul costo di un qualsiasi prodotto o servizio in vendita a Milano. L’ultima – l’ennesima – riguarda il pane venduto in un’attività di recente apertura in zona Washington.
Tutto è iniziato con un articolo sul Corriere Milano, che è stato successivamente ripreso da altre testate e diffuso sui social. Il motivo del dibattito è stato il prezzo del pane, venduto a nove euro al chilo e considerato, dai più, eccessivo.
Ma è alto perché effettivamente lo è per essere un mix di acqua, lievito e farine (seppur pregiate)? E se l’offerta risponde ad una precisa domanda, può considerarsi comunque alto?
Al netto di queste considerazioni economiche la faccenda è emblematica, e distilla al meglio la conclamata capacità dei milanesi di saper costruire una narrativa intorno a qualsiasi cosa o, per dirla nel modo più pleonastico possibile, di ammantare di lusso percepito qualsiasi prodotto o servizio perché, in fondo, sono bravi a farlo.
Il segreto, per parafrasare le due imprenditrici panificatrici, è come sempre lo storytelling:
«Ambrosia, il nostro pane più venduto, costa 9 euro al chilo. Più caro rispetto alla norma, però usiamo ingredienti di qualità, a filiera corta e tracciata. Il nostro segreto? Lo storytelling: spieghiamo ai clienti la nostra filosofia e il nostro modo di produrre il pane. I milanesi capiscono, s’informano, apprezzano: preferiscono, magari, spendere qualcosa in più ma portare a tavola un prodotto buono e salutare».
Tu che mi leggi e che quasi certamente lavori in questo ambito e/o in questa città, lo avrai compreso da tempo: Milano è una città che ha saputo trasformare la sua immagine in oggetto del desiderio, dove l’arte di sapersi raccontare si è evoluta in una sofisticata capacità di autopromozione.
Già durante il Rinascimento, per finanziare la costruzione del Duomo, i milanesi iniziarono a promuovere le indulgenze, ottenendo contributi monetari o prestazioni in cambio. Questo primo esempio precoce di marketing non solo accelerò la costruzione del Duomo, ma posizionò Milano come un centro di potere spirituale e temporale in Europa.
Non solo religione: la città ha saputo capitalizzare e commercializzare la sua identità anche attraverso la moda, la finanza, le pubbliche relazioni e, più recentemente, il turismo e la gastronomia. Tuttavia, non sempre è stato così: fino a qualche anno fa, la città più operosa d’Italia preferiva restare in penombra, lasciando il proscenio a città innegabilmente più affascinanti come Roma, Venezia o Firenze. Negli ultimi anni però, a partire dall’Expo del 2015, c’è stata un’inversione di tendenza che ha visto Milano posizionarsi stabilmente ai vertici delle classifiche di visitatori e nel mirino di grossi investitori stranieri.
Milano ha sempre saputo adattarsi, si dice. Forse è vero, o forse è semplicemente maestra nel vendere la stessa roba con un’etichetta sempre nuova.
Come quando si parla di pane. Chi l’avrebbe mai detto che un semplice lievitato potesse passare dall’essere una commodity fino a rappresentare un bene di lusso? Così come nessuno avrebbe mai pensato che un piatto di pasta in bianco potesse arrivare a costare 26€. Perché la filiera più è corta e più deve essere cara, verrebbe da dire, guardando il listino prezzi di alcune panetterie? Insomma, basta creare la giusta narrativa et voilà, il gioco è presto fatto.
In Sicilia, il cornetto o la brioche – con o senza granita – è un rito quotidiano, semplice e genuino. Non ha bisogno di troppi fronzoli per essere apprezzato, costa un quarto ed è più buono di una qualsiasi brioche di pasticceria che si possa trovare all’ombra del Duomo. O il pane pugliese o piemontese, magari fatto con farine di grani antichi e lievito madre, non è forse altrettanto saporito?
Da dove dipende, allora, questa discrepanza di qualità percepita?
La capacità di vendere non solo prodotti, ma esperienze, influisce senza dubbio. Milano ha un talento innegabile per creare narrazioni coinvolgenti e i suoi cittadini sono hip senza volerlo dare a vedere. Di questo va dato atto, così come va dato al grande orchestratore della crescita incontrastata della città degli ultimi anni, Beppe Sala. Lui, probabilmente il primo politico ad esser riuscito a dissimulare il cortocircuito tra filosofia di partito e la reale natura del suo feudo, emblema più fulgido del capitalismo italico.
A Milano tutto diventa un brand (come le celeberrime Week) o iconico e ciò che viene dipinto come slow, bio, handmade, autentico, pre-loved include un costo di maggiorazione, secondo la teoria della differenziazione di Porter. Trasformare l’ordinario in straordinario è una competenza e, come tale, va monetizzata.
Questa tendenza, sebbene possa essere vista positivamente da un lato, dall’altro potrebbe avere un impatto negativo sul vero stato di benessere della città.
Studi sociologici ed economici dimostrano come l’aumento dei prezzi e il city branding possano portare a una maggiore gentrificazione e a una diminuzione della diversità sociale. Questo fenomeno non solo rischia di escludere le fasce meno abbienti della popolazione, ma può anche portare a una perdita di autenticità culturale e ad una pressione sulle infrastrutture urbane, rendendo la città meno vivibile per tutti.
Lo sanno i cittadini che vivono oltre la prima cerchia, gli studenti o i single che non hanno più possibilità di permettersi un alloggio a prezzi popolari.
D’altronde la narrazione dominante sullo storytelling del capoluogo lombardo si basa massicciamente sulla riproduzione di modelli esterni, come quelli di città straniere ben più grandi e più ricche. Ma ci si dimentica che determinati paradigmi di consumo sono sostenibili con le retribuzioni adeguate a quello stile di vita (non è ovviamente il caso di Milano e dell’Italia dove gli stipendi sono fermi a circa 30 anni fa).
Sia chiaro: pur con i suoi tanti difetti a Milano di sostanza ce n’è tanta, per carità. Ma è vero anche che la città ha saputo creare un’immagine di sé così scintillante da abbagliare chiunque la guardi e qualsiasi cosa orbiti intorno ad essa, tanto da trasformare anche uno sfilatino in un emblema del lusso cittadino.
La domanda è: per quanto tempo ancora ci impegneremo così strenuamente per comprare un pezzo di tutto ciò?