Ma che fine farà il web3?

Buon venerdì!

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Ma che fine farà il web3?

 

Fino a pochi mesi fa bastava solo pronunciare le parole web3 o metaverso per solleticare la curiosità di chiunque (me compreso). Ora che il valore delle criptovalute è crollato in modo preoccupante e che l’esplosione della bolla sembra esser sempre più vicina, anche l’hype intorno alle due buzzword pare essersi bruscamente affievolito (anche se già si parla di web5(!)).

Certo, siamo ben lungi dal recitarne il de profundis, ma il clima generale è radicalmente cambiato. Ed è giusto fare qualche passo indietro e cercare di capire cosa ancora non va e quali elementi vanno invece tenuti d’occhio.

È passato quasi un anno da quando è scoppiata la frenesia dei media intorno a web3 e metaverso: l’irresistibile ascesa delle criptovalute prima, il successo degli NFT ed il cambio di nome da Facebook in Meta poi, a riprova di un crescente interesse da parte dei big. Tuttavia, il fervore su web3 e metaverso si è basato, per lo più, sulle promesse e sulle speranze di rapide e copiose plusvalenze economiche. Ora che il valore di criptovalute, token digitali ed NFT è crollato, era inevitabile assistere a una correzione fisiologica di queste dimensioni.

Di contro, asserire che questa sia la fine del web3 sarebbe una sciocchezza. Preferirei parlare piuttosto di investitori che fanno un passo indietro dopo la raggiunta saturazione, con quasi 20.000 tipi di altcoin (o shitcoin) differenti in circolazione. E davvero troppe di queste a dare una brutta immagine complessiva del settore.

Oltre a quella da crypto ed NFT, anche la febbre da metaverso sembra stia scemando, ed i motivi sono ben noti: non esiste ancora una definizione comunemente accettata del termine, il che genera confusione e lascia perplessi i potenziali utenti, le tecnologie si evolvono ancora troppo lentamente (o non così velocemente come il mondo tech ci ha abituati) e pure i player più importanti stanno rivedendo al ribasso le loro stime di crescita ed i loro investimenti.

La principale critica al metaverso è che, così com’è, non corrisponde a ciò che ci è stato promesso inizialmente. Si tratta di un concetto che ha più di 25 anni (Second Life, anyone?), in costante evoluzione, ma che richiederà ancora molti anni per concretizzarsi. Gli “use case” sono ancora limitati e, anzi, alcuni campi di applicazione non sembrano essere ancora adattabili al 100%, tipo quello lavorativo.

Certo, l’uso eccessivo dei dati personali da parte dei FAANG viene spesso portata come motivazione trainante, ma fino a prova contraria, ci sono ancora miliardi di utenti di Facebook, Instagram e Tiktok a cui l’uso che viene fatto dei propri dati, interessa si, ma solo marginalmente e non è ancora pronto a cambiare le proprie abitudini. Allo stesso modo, una delle USP della blockchain è la sua capacità di aggirare qualsiasi tipo di censura. Anche in questo caso iniziativa lodevole, ma in Occidente non è un tema così prioritario. Insomma, gli usi che si potranno fare del web3 nel futuro prossimo, non sono ancora facilmente tracciabili. Nemmeno da uno dei suoi più grandi investitori. (A tal proposito vale la pena leggere il pensiero di Valerio Bassan, che ha ispirato pesantemente il mio).

Quindi, Antonio, solo critiche?

Dunque, io non sto criticando un bel niente. Sto semplicemente cercando di comprendere il contesto attuale e, anzi, mi sentirei di spezzare una lancia a favore del web3: infatti, l’evoluzione del web non ha avuto una traiettoria lineare. Anzi, le critiche furono molto forti anche allora, alla fine degli anni ‘90, quando assistemmo allo scoppio della bolla delle Dotcom. Fortunatamente, col tempo, il mercato imparò ad auto-regolamentarsi e a trasformarsi in quello che conosciamo oggi.

 

 

Ci vorranno ancora diversi anni per perfezionare le tecnologie legate al web3 e per consentire l’emergere degli usi più rilevanti. Come molto spesso accade nella storia, è una questione di sincronizzazione e di velocità di adattamento: serve avere una buona conoscenza del mercato e non cercare di forzarne l’adozione. Se anche i player più grossi in questi ultimi mesi ne sono usciti con le ossa rotte, significa che correre non è la scelta più saggia.

 

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