L’impatto più evidente sul fronte social abbiamo già avuto modo di testarlo con TikTok, che incessantemente priva di quote di mercato pezzi grossi come Facebook o Youtube. È altresì assodato che l’isola felice che ha saputo ergersi a luogo di ritrovo digitale prediletto per chi fa business o cerca una vetrina per crescere dal punto di vista lavorativo esiste ancora: Linkedin. Tra i social network più seri — se non il più serio — sia per la prospezione dei clienti che per la costruzione di un solido personal branding, è ritenuto fondamentale per esistere professionalmente, qualunque sia la nostra attività o competenza.
Eppure alcuni, soprattutto in ambito tech, preferiscono Twitter, mentre altri lamentano il suo essere ancora troppo rumoroso, popolato da pseudo-guru, intellettualoidi autoreferenziali, business influencers o growth hacker senza scrupoli (ricordi quelli di BAMF e la broetry?). Nonostante i suoi oltre 700 milioni di utenti, la creatura di Reid Hoffmann sta lentamente invecchiando così come la maggior parte dei suoi utenti, ahimè vent’anni sono un’eternità, in ambito digital. Dall’altra parte della barricata TikTok sta vivendo invece un periodo di maturità: alcuni giovani tendono sempre più a considerarlo come un mezzo per confrontarsi, imparare ed addirittura trovare un nuovo impiego in modo proattivo, che la piattaforma stessa incentiva attraverso un suo portale dedicato.
Se lavori in HR, sono tutti trend da tenere d’occhio. Ma oltre a TikTok & Co. c’è un altro player che mira, in sordina, a detronizzare Linkedin come social network professionale di riferimento: Polywork.
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Secondo il suo fondatore Peter Johnston infatti, LinkedIn è innanzitutto un database di cv che non mostra le reali qualità di una persona:
“Il nostro obiettivo è riformulare ciò che LinkedIn ha sempre cercato di fare. Ad esempio, quanto è davvero utile un CV con un elenco di competenze? Per me non si tratta di quali e quante abilità hai, ma di ciò che effettivamente puoi fare con loro”.
La forza lavoro più giovane, rifiuta sempre più il concetto di full time job a favore di qualcosa che viene definito come polywork appunto, ossia la possibilità di svolgere più lavori e attività in contemporanea e cambiarli con facilità.
Polywork intende sfruttare i difetti dichiarati di LinkedIn consentendo ai propri utenti, in primis, di riprendere il controllo della propria identità. I profili su PolyWork integrano sia le attività professionali che quelle personali, con badge specifici che definiscono meglio chi si è realmente.
E, fortunatamente, ci risparmia l’ansia da prestazione eliminando il numero di like e condivisioni, così da evitare le eterne lotte a chi ce l’ha più lungo (…il cv). Inoltre si può associare un dominio web e farlo diventare così il proprio sito ufficiale.
Lanciato nell’aprile 2020, Polywork ha optato come strategia di crescita l’iscrizione solo su invito, ripercorrendo quella che sancì il precoce successo di Clubhouse. Per registrarsi a Polywork, al momento, o hai l’invito di qualcuno già iscritto (il mio, per esempio), oppure ti iscrivi alla lista d’attesa.
Ancora non è particolarmente noto, eppure gli ingredienti per una futura crescita esplosiva ci sono tutti, e coi finanziamenti sono arrivati quasi 3 miliardi di dollari. Ma, al di là delle cifre, è soprattutto il cast di investitori ad impressionare: c’è tutto il gotha della Silicon Valley, da Andreessen Horowitz ai fondatori di Stripe passando per uno dei co-founder di Instagram e addirittura Ari Emanuel, celeberrimo agente delle star di Hollywood.
Perché può funzionare?
I polyworker possono scegliere quindi più lavori e seguire più side-projects in parallelo e dimostrarlo sul social grazie a collection ad hoc. Una tendenza sempre più diffusa, soprattutto per coloro che vedono l’ecletticità come un sinonimo di libertà. Cose obiettivamente complicate da far emergere su LinkedIn. Per Johnston, non solo non siamo numeri, ma non siamo nemmeno semplici curriculum: siamo personalità più ricche, complesse ed intricate di una fredda ed asettica lista di lavori, titoli e referenze. Quello che LinkedIn NON sarebbe dovuto essere.
Anche il founder di Behance la pensa così.
Se di successo si tratterà, lo scopriremo nei prossimi mesi (in particolar modo tra gli italiani, popolo di santi, poeti, navigatori e laggards tecnologici), Linkedin da par suo è ancora il leader incontrastato.
Ma così come in molti altri settori immagino sia arrivato il momento di reinventare anche i social professionali e il modo in cui possiamo dimostrare le nostre competenze online.
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