Zelensky, meme e la propaganda 2.0

Ciao ragazz*,

immaginiamo che vada tutto bene, immaginiamo che non stia accadendo nulla di brutto, immaginiamo che tutto prima o poi passerà e sarà solo un lontano ricordo ed immaginiamo che quello che facciamo ogni giorno abbia un senso. Può averlo, aiutando (anche in crypto) chi si trova sotto il fuoco nemico in questo momento.

“You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one. I hope someday you’ll join us. And the world will live as one.” – John Lennon

Zelensky, meme e la propaganda 2.0

Dipinto da molti come un vero e proprio eroe, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è tutt’altro che un principiante quando si parla di comunicazione, e lo sta dimostrando ogni giorno, sul campo.

Digitando #Zelensky su Twitter, ci si imbatte in foto o video del presidente ucraino, con indosso la maglietta verde militare d’ordinanza, nel cuore degli scontri, ed è possibile notare le sfaccettature che assume la sua comunicazione agli occhi del mondo. Zelensky si mostra come un leader coraggioso, che condivide le difficoltà col popolo e le sue truppe. Ma se è così bravo e a suo agio nel gestire i media e la comunicazione politica, c’è una ragione. Grazie ad un passato da comico e attore, è abile davanti alle telecamere, ma anche sui social si dimostra brillante, mai banale e sempre pungente.

In un documento della giornalista Maryana Drach emerge come, durante la sua campagna elettorale, abbia sfruttato una strategia di targeting ancora più precisa e chirurgica di quella attuata da Cambridge Analytica per l’elezione di Donald Trump nel 2016. E poi, via le noiose conferenze stampa o le classiche interviste esclusive: Zelensky decise di produrre contenuti rivolti direttamente al popolo, senza filtri, e trasmettere il messaggio di una personalità positiva ed intenzionata a liberare il Paese dalla corruzione.

Sempre secondo la Drach, è stata data grande importanza anche all’uso massiccio di bot o di giovani studenti impiegati per postare meme e trollare gli avversari. Una strategia ideata da Dmitry Raimov, il consulente che ha assistito Zelensky fino alla sua elezione come Presidente.

L’utilizzo del trolling da parte del governo ucraino, anche in periodi bui come questo, ha reso la comunicazione ancora più penetrante, diventando essenziale nella propaganda anti-Russia.

Per quanto sorprendente possa sembrare, ironizzare in tempi di guerra non è certo una cosa nuova. Le vignette satiriche e le caricature hanno fatto parte della propaganda politica e di guerra da tempi immemori. In tempi più recenti Michael Prosser, tenente colonnello della marina militare statunitense, teorizzò la memetic warfare, e all’epoca propose addirittura la creazione di un centro dedicato. Anche in Russia, la famosa Internet Research Agency, con sede a San Pietroburgo, è responsabile della creazione di immagini atte a manipolare l’opinione pubblica.

 

Sfruttando testo, immagini, umorismo e nonsense, i meme sono gli strumenti ideali per garantire una nuova forma di propaganda 2.0. La stessa utilizzata dai responsabili dell’account ufficiale @Ukraine, già da alcuni mesi, che raccontano il loro approccio al Washington Post:

Con un meme, possiamo spiegare al pubblico lontano perché la Russia rappresenta il problema. Con i meme il concetto passa in modo più semplice ed efficace. E se il messaggio raggiunge quasi 55 milioni di persone, è innegabile l’impatto che può avere questo tipo di comunicazione.

Un libro: Sociability di Francesco Oggiano

Francesco è un bravissimo giornalista, content creator e collega di newsletter, e nel suo ultimo lavoro, Sociability, racconta com’è cambiato il giornalismo, perché dilagano conformismo, fake news e tutte quelle notizie che ci fanno imprecare di indignazione ogni giorno. Ma anche il motivo per cui la rabbia sembra essere diventata lo stato d’animo prevalente online o come sono nate le lotte sociali diffuse sui social e poi divenute movimenti globali quali il Black Lives Matter e il #MeToo.

Una lettura scorrevole, ironica ma anche intrisa di spunti utili per comprendere al meglio la mutazione della comunicazione online ai tempi dei social, la direzione che sta prendendo il giornalismo sulla rete e ci aiuta a prepararci al bivio che ci troviamo davanti: saremo chiamati a scegliere tra la semplificazione e la complessità, l’indignazione fine a se stessa e le idee, i meri simboli e l’azione, l’illusione della perfezione e l’umanità, il narcisismo e la curiosità.

Qui un gustoso estratto:

Faccio questo mestiere da più di dieci anni, nel corso dei quali ho sentito e vissuto ogni tanto pressioni di ogni tipo. Nuovi mezzi come le newsletter, i podcast, i video e soprattutto i social, se da un lato promettono di “liberare” i giornalisti da pressioni di terzi, dall’altra rischiano di limitarli tramite una forma di condizionamento più subdola, e quindi pericolosissima: il pubblico.

Pensateci: non è mai capitato anche a voi di pubblicare contenuti sul vostro profilo personale all’esclusivo scopo di ottenere like, nonostante in cuor vostro foste dubbiosi sulla reale validità e onestà intellettuale di quel contenuto? Magari era una polemica che non avevate approfondito, magari un personaggio finito in una shitstorm. Volevate solo aggiungere la vostra battutina, dare il vostro piccolo contributo: per sentirvi parte di un gruppo, ricevere approvazione, instaurare nuove relazioni o consolidarne di vecchie.

Moltiplicate questi istinti umanissimi per quattrocento, uniteli in uno stesso posto (una redazione) e avrete uno dei più drammatici atti d’accusa al rapporto tra giornalismo e social del nuovo millennio: la lettera di dimissioni di Bari Weiss dal New York Times. […] «Twitter non è nella gerenza del “New York Times”. Ma è diventato il suo vero direttore» scrive. «Le storie sono scelte e raccontate per compiacere lo zoccolo duro del pubblico anziché attrarre i lettori più curiosi a leggere notizie di tutto il mondo e poi trarre le proprie conclusioni.» Quindi l’affondo: «Perché pubblicare qualcosa di stimolante per i nostri lettori o scrivere qualcosa di audace, quando possiamo assicurarci il risultato (e i clic) pubblicando il nostro quattromillesimo articolo in cui sosteniamo che Donald Trump è un pericolo per il paese e il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma […] Gli editoriali che appena due anni fa sarebbero stati facilmente pubblicati oggi metterebbero in difficoltà il caporedattore o il giornalista, forse fino a farli licenziare. Se si ritiene che un pezzo possa avere un contraccolpo interno o sui social media non viene proprio pubblicato». Tra gli altri casi, quello del sondaggista politico David Shor, che perde il lavoro dopo aver twittato dati sul legame tra gli episodi di vandalismo seguiti all’uccisione di George Floyd e l’aumento del consenso dell’allora presidente Trump.

Il rischio del conformismo social è doppio. Da una parte rischiamo di avere redazioni e personalità (giornalisti, intellettuali, autori, creator) sempre più piacioni, smaniosi di assecondare e confermare visioni del mondo di persone sempre più suscettibili, anziché di raccontare i fatti e offrire analisi che mettano in difficoltà e sovvertano il nostro modo di pensare. Dall’altra, di avere appaltata una contronarrazione esclusivamente a figure più o meno ”punk“, più o meno antisistema, e in rotta con il sistema da cui denunciano di essere stati censurati.

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